domenica 2 maggio 2021

La politica dalla Balena Bianca alle Sardine


La politica è cosa buona e giusta se chi la esercita la concepisce come ricerca del bene comune, come strumento per la realizzazione della vita sana e virtuosa del cittadino. 

Non è mai stato così anche se, limitandoci alla storia recente italiana, nella cosiddetta Prima Repubblica i politici avevano un minimo senso dello Stato, avevano fatto lunghe gavette e frequentato le scuole dei partiti. 

Insomma, prima di ricevere un qualsiasi incarico, anche il semplice addetto all’affissione dei manifesti elettorali, doveva farsi le ossa. È anche vero che in questa fase spesso e volentieri si è operato prevalentemente per gli interessi di partito un solido punto di riferimento, fucina di valori incrollabili e che rappresentava per essere più tribali quello che è ancora oggi una squadra di calcio per gli ultrà della curva.

Poi c’è stata Tangentopoli, il processo a Giulio Andreotti, le stragi di mafia, la discesa in campo dell’uomo di Arcore, i girotondi e molto altro ancora fino ai Vaffa dei Grillini. In 20 anni poi siamo passati dalla grande Balena Bianca (la Democrazia Cristiana) al Movimento delle Sardine. Le cose cambiano.

In ogni modo, il risultato a lungo termine non è stato dei migliori. Limitandoci a guardare la punta dell’iceberg molti politici continuano a fare prevalere altri interessi rispetto al perseguire il bene comune. Al primo posto, però, non ci sono più i partiti ma gli obiettivi esclusivi del singolo capotribù e dei suoi accoliti. I valori sono crollati. Tutto è andato a “puttane” e non soltanto in senso figurato.

Chi per questioni anagrafiche è vissuto tra la Prima e Seconda Repubblica (qualcuno parla anche di una Terza) e chi semplicemente ha letto e studiato la storia più recente, non può non condividere che con tutte le buone intenzioni la rivoluzione di “Mani Pulite” ha anche fatto “buttar via l'acqua sporca con il bambino dentro”, nel senso che ha cancellato tutto, anche quello che di buono doveva essere conservato dei partiti che fino ad allora avevano retto la Repubblica Italiana. 

Il momentaneo disfarsi di ogni cosa al grido di “tutti i politici sono ladri”, una volta archiviata la rivoluzione e l’improvvisa voglia di giustizia, le cattive cose hanno ripreso il loro corso con la differenza che a guidare l’Italia, dal piccolo comune al governo, si sono ritrovate le quarte file. In altre parole, persone che un tempo all’interno di un partito avrebbero potuto al massimo rispondere alle telefonate, sono state catapultate in Parlamento, in Regione e nei consigli comunali. Il tutto da un giorno all’altro, senza formazione, senza gavetta, senza un minimo di senso dello Stato.

La Prima Repubblica è morta. La Seconda non sta tanto bene e nella Terza si prospettano “dolore e spavento e puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto”.

Nell'enciclopedia Treccani alla voce “politica” si legge che è "Il complesso delle attività che si riferiscono alla ‘vita pubblica’ e agli ‘affari pubblici’ di una determinata comunità di uomini. Il termine deriva dal greco pòlis («città-Stato») e sulla scia dell’opera di Aristotele Politica ha anche a lungo indicato l’insieme delle dottrine e dei saperi che hanno per oggetto questa specifica dimensione dell’agire associato".

domenica 25 aprile 2021

La comunicazione leggerissima dei social compulsivi

Nelle serie TV e nei cinema è un continuo proliferare di storie che descrivono un futuro distopico, “una realtà immaginaria del futuro, ma prevedibile sulla base di tendenze del presente percepite come altamente negative, in cui viene presagita un’esperienza di vita indesiderabile o spaventosa”.

Parte di questo futuro è adesso. I mesi difficili della pandemia finora sembra abbiano accentuato soltanto gli aspetti negativi mostrando una società che ha ripudiato valori e contenuti diventando progressivamente più fragile, narcisista e “leggerissima”.

A lasciare frastornati è anche l’utilizzo ossessivo compulsivo ed errato dei social, soprattutto da parte di figure pubbliche istituzionali e politiche che, invece, dovrebbero dare il buon esempio assumendo o facendo finta di assumere comportamenti virtuosi.

Invece, come certi adolescenti interrotti chiusi in stanze maleodoranti e con poca luce, trascorrono il tempo a pubblicare un post dopo l’altro come se non ci fosse un domani, neanche gestissero i profili social di un’agenzia di stampa, di un grande ente pubblico o di una multinazionale. 

Pubblicano a ripetizione post di cui il 90% dei contenuti sono spesso aria fritta. È vero che, limitandoci sempre a politici e amministratori, dal piccolo comune di 300 anime sul cocuzzolo della montagna alla metropoli con milioni di abitanti, succedeva anche in passato quando si comunicava esclusivamente tramite note stampa. 

I poveretti sentivano l’esigenza di esternare, almeno una volta al giorno, su qualunque cosa convinti che il mondo non potesse andare avanti senza una loro dichiarazione. Ma almeno vi erano diversi filtri che contenevano i più compulsivi o davano un senso alle dichiarazioni.

I social hanno brutalmente amplificato la voglia di esternare. Basta un click e in un attimo ogni baggianata, frase, video, foto è on line. Studi scientifici hanno dimostrato che è tutta colpa della chimica

Per andare al nocciolo del problema stiamo parlando di veri e propri tossici dei social. Il meccanismo è uguale: si pubblica un contenuto, si ottengono delle risposte e il cervello riceve messaggi di gioia, benessere e rilascia dopamina.  È il prodotto chimico che media il piacere nel cervello. 

E per continuare a provare questa sensazione positiva si esagera, si pubblica di continuo abbassando anche il livello dei contenuti perché un messaggio leggerissimo, popolare cattura più facilmente like. E quando si riceve una critica costruttiva o un commento negativo (che a differenza dei treni arriva puntualissimo) questi personaggi social compulsivi reagiscono malissimo, entrano in crisi e nei casi più gravi gridano alla lesa maestà.

L’emergenza sanitaria avrebbe dovuto riportare tutti sulla retta via, ma è durata un attimo l’illusione di riscoprire l’importanza delle relazioni umane, dei contenuti, dei valori, della salvaguardia del pianeta. Quasi, quasi ci faccio un post.


Foto di Oleg Magni da Pexels

domenica 18 aprile 2021

Smart Working, buco nero o gioia infinita

Ai tempi della pandemia possiamo dividere le persone in due grandi gruppi: quelli che sono stati inghiottiti nel buco nero dello smart working e quelli che danno pieno sfogo alle loro passioni e alla propria vena creativa.

I primi praticamente iniziano a lavorare alle sette del mattino e finiscono alle 24.00 e per andare in bagno devono organizzare i tempi al millesimo ricorrendo a difficili formule matematiche e aggiungendo tripli salti mortali all’indietro tra call, figli che urlano e animali domestici che vogliono conto e regione. 

Lo smart working all’italiana significa che tu stai a casa, diventi disponibile 24 ore su 24, sette giorni su sette, lavori con il tuo computer, la tua connessione internet, insomma trasformi casa tua in ufficio operativo al servizio dell’azienda. 

E poi c’è il capo che, probabilmente per terribili attacchi di solitudine o al contrario per estraniarsi dalla famiglia che prima incrociava solo nel weekend, improvvisa call anche in tarda serata in cui i primi 5 minuti fa finta di discutere di lavoro e per il resto arriva a parlare della strana forma della cacca del suo cane. 

Lo smart working non finisce mai. Non ha importanza se sei già “impigiamato” o se dopo 12 ore di smart working hai gli occhi rossi e la faccia come un mocio vileda con cui è stato pulito un cesso pubblico. 

I secondi, invece, pur lavorando anche loro da casa, noncuranti dei possibili controlli dell’azienda, sfruttano al massimo le 24 ore di una giornata per dedicarsi il più possibile al tempo libero e alle loro passioni

Postano ogni giorno e in maniera compulsiva sui social le foto di allenamenti cazzuti, corse in aperta campagna o per le vie semideserte del centro urbano, escursioni in bicicletta. E poi ci sono quelli invasati dal demone della creatività che si improvvisano scrittori, cantanti e giornalisti. 

Altri aggiungono anche fantasmagoriche imprese gastronomiche da mettere in ombra lo chef Antonino Cannavacciuolo. Poi c’è anche chi riesce a fare fuori, uno dopo l’altro, gli archivi di serie tv e film di Sky, Rai Play, Amazon e Netflix e di altre piattaforme. Questi sono quelli non vogliono più tornare in ufficio, che lavorare da casa è la cosa più bella del mondo, che urlano dai balconi “smart working” per sempre. 

È ovvio che sono due situazioni estreme e che in mezzo ci sono tante condizioni diverse, tante sfumature di vita quotidiana condizionate dalle restrizioni di sicurezza anti Covid-19. In ogni modo, lasciando da parte le cose più serie come i casi di contagio, i ricoveri e le morti, è possibile dire che come spesso accade anche ai tempi della pandemia c’è chi ha peggiorato la qualità della propria vita e chi invece è rinato e sorride come se avesse vinto la lotteria. 

Foto di Anthony DeRosa da Pexels

domenica 11 aprile 2021

Come in un loop pandemico

Ai tempi della pandemia accade tutto e niente. Un viaggio iniziato nel 2019 e caratterizzato dalla crescente angoscia di non arrivare mai a destinazione, di non poter un giorno scendere nella stazione della normalità

Andrà tutto bene, anzi quasi tutto o meglio forse solo una piccola parte. Vivere alla giornata tra canzoni urlate dai balconi, le bare dei morti in solitudine, gli aperitivi ad ogni costo, il cambio della guardia a Palazzo Chigi, lo smart working, l’adolescenza rubata, le infinite video call e le relazioni virtuali, l’aumento esponenziale della cattiveria, l’esercito di medici e ricercatori tirati fuori dai loro scantinati ed eletti a totem, le risse vere e presunte tra i giovani, la campagna vaccinale di massa che non decolla, Montalbano che lascia Livia per una donna più giovane, il pop rock che conquista Sanremo, il futuro affidato ai Draghi dell’economia e molto altro ancora. 

Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP cantava accarezzati in sogno in un tempo spezzato che gira, rigira ritorna all'inizio, non vuole finire mai

Una vita che si muove a singhiozzi dentro un tunnel ovattato con alle pareti grandi schermi che trasmettono serie tv. In fondo si vede un grande semaforo che cambia continuamente colore: rosso, rosso scuro, rosso sangue, arancione, giallo paglierino…

E viene in mente un finale, quello del film “C’era una volta in America”, con Robert De Niro nella fumeria d’oppio, una tirata e un sorriso sinistro ed enigmatico che al meglio rappresenta lo stato delle cose.